Tu sei per te stesso il più grande dei misteri, il Principio di tutte le soluzioni.
Gli scopi fondamentali del corso Trasformare il rancore in Perdono e i sensi di colpa in Amore sono:
–Aiutare a comprendere profondamente i fenomeni sensi di colpa e risentimento,
–Attivare processi consapevolizzanti per liberarsi da questi due fenomeni opprimenti,
–Spiegare come migliorare la qualità del rapporto con se stessi e gli altri, per diminuire/evitare la formazione di sensi di colpa, rancori e di conflitti,
–Offrire tecniche di consapevolizzazione per trasformare il rancore in Perdono e i sensi di colpa in Amore,
–Stimolare la crescita della consapevolezza in generale.
Il corso ha una parte:
teorica, approfondimento sul risentimento, sui sensi di colpa, sul Perdono e sull’Amore.
pratica, esercizi di consapevolezza per neutralizzare i sensi di colpa e il risentimento,
Qualche tempo fa, una persona di mezz’età che attraversava un periodo di difficoltà relazionali, mi confidò di aver assunto un Investigatore privato allo scopo di pedinare il marito e verificare alcuni sospetti. In effetti, i risultati dell’indagine furono in linea con le supposizioni, poichè fu dimostrato che questo signore si intratteneva con un’altra donna ormai da diversi mesi. Questo fu il prologo di una richiesta di aiuto che avrebbe dovuto ricostruire la coppia ormai lacerata e ricompattare le mura familiari ormai quasi del tutto franate. Nel corso dei colloqui emerse che assumere l’Investigatore era stato soltanto l’ultimo degli stratagemmi escogitati per avere conferma dei sospetti. Prima di allora, le strategie si erano contenute al puntuale controllo dei messaggini SMS e nella lettura minuziosa di alcuni appunti presi dal marito. Dal momento che i sospetti furono confermati, i colloqui iniziarono ad assumere una piega da una parte accusatoria nei confronti del marito colpevole, e dall’altra desiderosa di ottenere da parte mia, conferme e approvazioni. I fatti parlavano chiaro: questo signore aveva un’altra donna, più giovane e senza figli, e questa relazione pare durasse ormai da quasi sei mesi.
La persona che aveva chiesto il colloquio, e che con uno pseudonimo chiamerò Anna, era dunque in mezzo ad un pericoloso guado. Da una parte aveva l’idea, del tutto illusoria, della coppia “del passato” così come era stata negli anni precedenti, e il cui ricordo era ammantato di una assoluta, perfetta, rosea armonia di cui ero fortemente perplesso. Dall’altra aveva di fronte la coppia “del futuro”, la cui immagine era frammentata e lacerata da angosce e paure. Oltre a ciò, Anna era combattuta tra il bisogno di chiudere velocemente lo strappo, con un perdono rapido ed indolore che avrebbe – almeno nelle intenzioni, idealmente – riportato il marito verso il letto coniugale, e dall’altra il forte bisogno di vendetta che gli avrebbe consentito di dare finalmente sfogo alla tanta rabbia accumulata nei mesi precedenti. La confusione era quindi poi accentuata da riflessioni personali ed intime che questo evento aveva improvvisamente portato alla luce e che riguardavano il senso di fallimento personale, la ricerca di un senso da attribuire alla vita fino ad ora trascorsa, la paura della solitudine, il senso di abbandono, la ferita del tradimento, la perdita della fiducia nella vita.
Quando nel corso dei colloqui, cominciammo ad esplorare le aree dei meccanismi di difesa, cominciò ad emergere un quadro relazionale che fu particolarmente prezioso per tutto il lavoro successivo. Emerse che, dopo la nascita dei figli, il marito (descritto come una persona sensibile ed affettuosa) si era progressivamente estraniato dalla famiglia per dedicarsi pressoché integralmente alla carriera professionale. Questo investimento gli aveva fruttato non poche soddisfazioni e una crescita che nel tempo lo aveva condotto ai più alti vertici aziendali. Anna, dal canto suo, si era invece dedicata alla crescita dei tre figli e al menage familiare, svolgendo una funzione praticamente di tutto-fare. Infatti, oltre a dedicarsi ai figli, organizzava meticolosamente la giornata del marito, predisponeva accuratamente i vestiti del giorno dopo, pianificava minuziosamente i viaggi e i pranzi di lavoro, progettava con cura quasi ossessiva le vacanze, curando i più minimi dettagli fino all’itinerario, le soste, le passeggiate fotografiche, ecc. Questo stato di equilibrio era durato per diversi anni.
Poi però aveva cominciato a vacillare una prima volta, quando il primogenito raggiunse la maggiore età e scelse di studiare in una città vicina, appoggiandosi alla casa di alcuni parenti. Ma questo primo terremoto, rientrò – racconta Anna – “perché presi a dedicarmi con maggiore intensità, ai problemi scolastici del secondogenito, che ormai da tempo erano diventati sempre più gravi”. Man mano che emergevano i racconti, dagli scenari narrati lentamente cominciava a percepirsi un quadro di relazioni per quanto scrupolose, ma spesso asettiche, razionali, limitate agli aspetti logistici ed organizzativi di una famiglia numerosa. Le comunicazioni erano pressoché integralmente comprese in ciò “che bisognava fare, ciò che dovevamo fare”. Mancava del tutto la dimensione del piacere, della condivisione, del godimento reciproco. La sensazione era che mancasse proprio una “dimensione di coppia”. La coppia originaria – cominciai a proporre ad Anna – probabilmente era stata sequestrata e tradita già molto tempo prima delle fotografie scattate dall’Investigatore privato. Proposi quindi di collocare il tradimento nel momento in cui i partner avevano permesso che la Famiglia schiacciasse la Coppia, magari pensando del tutto in buona fede, che fossero essenzialmente la stessa cosa.
Man mano che il lavoro procedeva sempre più profondamente, raggiungiamo una tappa molto importante e che riguarda non tanto la coppia, quanto principalmente il vissuto personale ed intimo di Anna. Dalla storia generazionale emerge infatti che Anna è una secondogenita, nata dopo una sorella e prima di un fratello. I genitori di Anna, molto tradizionalisti, avevano sempre desiderato un maschio, e dopo la delusione della prima figlia, avevano sperato che almeno il secondo parto li avrebbe appagati. Le cure dei genitori furono quindi rivolte pressoché esclusivamente alla primogenita e alle sue aspirazioni verso la danza classica, e al terzo figlio maschio che è rimasto il cucciolone della famiglia. Anna racconta e fa emergere una quantità enorme di episodi dove denuncia la propria sostanziale invisibilità e incapacità di attrarre le attenzioni, le cure e l’amore dei genitori. “Non mi hanno fatto mai mancare nulla – riferisce – ma se devo essere sincera, tante volte che avrei avuto bisogno di loro per i miei piccoli grandi problemi, era come se non esistessi”. Ecco allora che propongo ad Anna di mettere insieme parti che solo apparentemente sembrano separate dal tempo.
Ed in effetti Anna prende coscienza che la cura e la meticolosità che poneva nell’organizzazione pressoché dell’intero universo familiare, aveva come sfondo il bisogno di essere vista ed amata. Questa consapevolezza per Anna è quasi folgorante. In un attimo riesce a vedere se stessa prima bambina con il suo vuoto affettivo e il suo legittimo desiderio di essere amata e poi quasi contemporaneamente, osservare se stessa, adulta, che curando ossessivamente ogni minimo dettaglio, è ancora lì, congelata nel medesimo atto di essere vista, riconosciuta, e finalmente apprezzata e amata. Il bisogno di controllare ogni istante della vita dei familiari aveva finito con il perdere il suo scopo originario (ottenere l’affetto) e aveva assunto quasi una vita propria, soffocando gli spazi di coppia. Il meccanismo di difesa che la proteggeva dal dolore di non essere stata amata, aveva assunto nel tempo un carattere invasivo, indiscreto, quasi petulante. Le sue continue verifiche, controlli, le ispezioni negli zaini dei ragazzi o negli orari del marito, si erano lentamente trasformate in una sorta di sorveglianza pressoché continua che impediva la libertà affettiva.
Mentre l’inconscio ferito di Anna era ancora convinto di agire per la propria protezione dal dolore, in verità finiva per ottenere paradossalmente l’effetto contrario. Questo importante passaggio, ha determinato una nuova e diversa consapevolezza di Anna, e una migliore conoscenza dei propri modelli relazionali. Di per sé tuttavia, questo “giro di boa” non aveva ancora portato nessun risultato concreto. Il lavoro successivo fu quello di allenarsi a mettere in pratica la propria nuova visione delle cose. Non fu facile quindi accettare che il proprio vuoto affettivo non dipendeva soltanto dalle assenze del marito, ma era piuttosto un elemento molto più antico, profondo e che affondava le radici addirittura nella storia familiare di Anna e nel suo vissuto intrauterino. Era già infatti sin dal concepimento che Anna aveva percepito intuitivamente che vi era un’atmosfera di non accettazione nella sua famiglia di origine: se voleva amore e attenzione sarebbe dovuta almeno nascere maschio. Prendere su se stessa il carico e la responsabilità di questa consapevolezza le fu di grande aiuto, perché le consentì in primo luogo, di uscire da un terribile circolo di autocommiserazione e di vittimismo.
Inoltre, le consentì progressivamente di lasciar-andare, di “mollare” quel senso di iper-controllo che pesava su ogni componente della famiglia. Evitare il controllo non fu per nulla facile e necessitò di diverso tempo e comprensibilmente di diversi tentativi. Anche perché Anna aveva ormai avuto la conferma del tradimento del marito, quindi una parte di sé, riteneva positiva questo strumento di difesa. Tuttavia si trattò di un allenamento che con il tempo diede risultati davvero eccellenti. Man mano che Anna riusciva ad essere meno invadente, progressivamente cresceva la sua capacità di strutturare in maniera affettiva (e non più soltanto razionale ed organizzativa) le relazioni sia con i figli che con il marito. La logistica, giorno dopo giorno, lasciava sempre più spazio alla verità dei bisogni di attenzione, di presenza, di amore, non più pretesi, ma sempre più chiesti come dono. Altro elemento che ricominciò ad emergere tra i partner fu la riapparizione della fiducia. Gli sforzi di Anna di essere sempre meno iperpresente nella vita del marito, consentivano un dialogo sempre più sincero.
Con il tempo si verificò quello che ad Anna appariva come una specie di miracolo: mentre prima, più controllava il marito illudendosi di tenerlo a sé e più questi si allontanava, man mano che accettava di non controllarlo, il marito sembrava manifestare timidi tentativi di riavvicinamento. Paradossalmente (ma solo apparentemente), mentre Anna smetteva di essere indispensabile a tutti i costi, gli altri (marito compreso) cominciavano progressivamente ad aver sempre più bisogno di lei. Non si trattava di stravaganti teoremi sull’amore, secondo i quali “se fuggi sei inseguito”, ma semmai del processo di trasformazione, ben più profondo, che Anna aveva avviato su se stessa. Invece di continuare inconsciamente a rimpiangere l’amore non ricevuto dai suoi genitori, ne aveva preso coscienza e aveva deciso di smettere di essere indispensabile per ottenerlo. Anna cominciò un nuovo e rivoluzionario cammino personale che l’ha portata a comprendere l’amore per se stessa, con enormi effetti positivi, il primo dei quali, pratico e concreto, che smettere di controllare ossessivamente ogni dettaglio della vita di tutti, le lasciava ora un’enorme quantità di tempo libero a disposizione e molte più energie e risorse.
Ma gli effetti positivi non si sono limitati a questo. Ad oggi il marito ha diminuito moltissimo i suoi famosi “straordinari”, le sue “riunioni” fino a notte fonda, e anche le sue improrogabili “trasferte fuori città” si sono ridotte a poche all’anno. I rapporti sessuali pian piano sono ripresi, ma soprattutto la qualità della vita è molto migliorata e sta ancora cambiando in meglio. Le assenze del marito si sono concretamente trasformate in piccole grandi attenzioni, in presenza, partecipazione, affetto, amore. Gli spazi progressivamente lasciati da Anna sono stati occupati dal marito, che ha finalmente detto che “… quest’anno, invece del solito mare, vorrebbe andare in montagna, in una località da scegliere assieme!”. Anna non può avere la certezza fotografica che il marito non frequenta più altre donne (perché le ho prescritto di non utilizzare più l’Investigatore), ma – riferisce – di esserne in ogni caso sicura, di averne una certezza interiore “…che non si può spiegare a parole. Me lo sento”.
La coppia è una delle più grandi e meravigliose opportunità che la vita ci offre per apprendere l’Arte di amare.
Le relazioni di coppia sono anche una straordinaria occasione per trasformare vecchi modelli relazionali e schemi mentali di comunicazione, in nuove forme e nuove modalità di percepire noi stessi nel mondo e in relazione profonda con un Altro. La coppia è quindi un’arena dove sperimentare continuamente nuovi ‘abiti’ esistenziali e dove verificare – passo dopo passo – il nostro personale cammino evolutivo.
Uno degli elementi più insidiosi e che più facilmente portano disagio nella relazione di coppia è il giudizio critico. Anche se non ce ne accorgiamo, siamo addestrati e condizionati a giudicare continuamente. Ogni oggetto, evento, circostanza, episodio e occasione della nostra vita sono sottoposti inevitabilmente al nostro conscio o inconscio giudizio.
Questo meccanismo giudicante automatico opera anche all’interno della vita di coppia, e provoca spesso disastri che a lungo andare diventano importanti.
Se vogliamo quindi ‘prevenire’, l’opera più efficace di prevenzione è quella di astenerci dal giudicare, dal criticare, dal misurare ed esprimere sempre il ‘voto’, come invece ci suggerisce il nostro meccanismo ‘giudicante’. Il giudizio dell’Altro infatti – seppure apparentemente supportato da una ragione logica, sostenuto da un ragionamento apparentemente coerente e rigoroso – spesso è un contenitore per veicolare emozioni e sentimenti quali rancore, dispetto, rabbia, insofferenza, odio, ecc.. Se proprio non ne possiamo fare a meno, cerchiamo almeno di esprimere più che la critica, manifestare l’emozione che il partner ci provoca, ovvero il nostro ‘sentire’ in risposta al partner. Questo sistema che può essere definito ‘Parlare in prima persona’, presenta innumerevoli e riconosciuti vantaggi relazionali. Facciamo un esempio banale: quando il partner, malgrado gli avvertimenti, per l’ennesima volta lascia il tubetto di dentifricio aperto, invece di colpevolizzarlo e di accusarlo, proviamo ad utilizzare il sistema di ‘Parlare in prima persona’, dicendo ad esempio che la vista del dentifricio aperto provoca in noi un senso di disagio, oppure un senso di rabbia per il consumo inutile e lo spreco, oppure meglio ancora un senso di frustrazione perché ci ricorda i rimproveri di un’educazione rigorosa.
In altre parole, poniamo e facciamo porre l’attenzione del partner sul disagio che ci provoca e non sul modello filosofico, culturale o etico anti-capitalista ed ecologicamente compatibile. ‘Parlare in prima persona’ aiuta il partner a comprendere profondamente: perlomeno offre un’opportunità per fondare una piattaforma iniziale per un dialogo autentico. Poi è compito di entrambi i partner di svilupparla fino a farla diventare uno stile di comunicazione abituale e positivo.
E’ ampiamente dimostrato che la maggioranza dei litigi o dei conflitti di una coppia sono fondati su discussioni apparentemente banali o di poca importanza: i conflitti realmente ‘vitali’ sono pochissimi e spesso si concludono rapidamente. Le battaglie più estenuanti invece sono proprio quelle istituite sul famoso tubetto di dentifricio piuttosto che sul luogo delle vacanze, sui ritardi agli appuntamenti: insomma niente che vada a toccare i valori profondi dei partner, o il loro progetto di coppia.
Eppure le migliori energie sono impiegate in baruffe e scaramucce che – al di là di ogni banale apparenza – possono alla lunga logorare realmente un rapporto fino a farlo concludere amaramente.
E’ molto utile in questi casi porsi interiormente la seguente domanda: “Ma per me, in questo preciso momento, è più importante avere ragione ed essere confortato dalla soddisfazione, oppure è più importante stare bene con te?”
Di solito se posta con spirito sincero, questa domanda ‘interiore’ è straordinariamente efficace nel far cessare immediatamente le ostilità.
Certamente non basta porsi occasionalmente una domanda interiore: ma è utile interrogarsi profondamente su quali siano i Valori su cui è costruita la propria relazione, chiedersi autenticamente su quali siano le proprie finalità e quali invece le priorità all’interno della coppia.
Quando poi non è più possibile fare ‘opera di prevenzione’, perché le ferite sono ormai consolidate e i dolori sono incancreniti, allora possiamo utilizzare lo strumento del perdono.
Con una piccola avvertenza: perdonare non è facile per moltissimi motivi, ma anche perché il perdono non è una procedura, un complesso di regole, non è un procedimento composto da una serie di criteri o di step, ma si tratta di una decisione interiore realizzata con il cuore. In questi casi, la razionalità non ci aiuta: anzi, spesso ci consiglia di non perdonare e ci mostra con ogni lacerante, ovvia logicità tutte le ragioni (spesso valide!) per cui il perdono non può essere concesso.
Se vogliamo perdonare, dobbiamo quindi realizzare un piccolo miracolo: ovvero astenerci dal valutare una situazione esclusivamente con gli occhi della razionalità, ma concederci di osservarla solo con gli occhi del cuore. La nostra razionalità infatti ha già evidentemente ‘giudicato’ e probabilmente – sulla base di fatti concreti, reali e autentici – ha emesso la sua terribile sentenza di condanna. Se un partner riceve un’offesa, un tradimento, gli viene negato un diritto, scatta inevitabilmente un dolore profondo che spesso non può essere vinto se i partner rimangono pervicacemente legati al ‘piano razionale’: su questa piattaforma ciò che conta è soltanto l’analisi dei fatti, concludere ‘chi ha ragione’ e ‘chi ha torto’ ed emettere una sentenza di condanna.
Questo tipo di analisi – indipendentemente dalla correttezza formale – non è assolutamente utile quando si tratta di dolore umano. Il ciclo del dolore viene spezzato solo dal potere del perdono: non esistono scorciatoie, magie o ricette miracolose. Se vogliamo fare uso dello straordinario strumento del perdono, dobbiamo quindi non solo fare a meno della nostra parte razionale, ma forse dobbiamo anche per una volta, dargli un po’ meno importanza.
Il perdono infatti si pone come finalità ultima quella della riconciliazione, della rappacificazione (interiore o con un’altra persona): tale obiettivo diventa la meta più importante, il fine assoluto a cui va sacrificata ogni considerazione logica, ogni analisi raziocinante. Per vincere la straordinaria forza della razionalità (e del bisogno di vendetta) che lascia inevitabilmente nella lacerazione e nel dolore, dobbiamo usare lo strumento della decisione interiore realizzata con il cuore.
Non perdonare il partner significa attribuirgli una colpa indelebile ed indistruttibile: simbolicamente è come portare quella colpa al di sopra del mondo umano per trasformarla in una colpa eterna, ultraterrena, quasi soprannaturale. Perdonare significa invece offrirgli una possibile riparazione: anche quando l’offesa ricevuta è profonda, concedere una riparazione metaforica significa accettare l’umanità del gesto, la fragilità del partner riconoscendola come una fragilità di tutto il genere umano, anche di chi riceve l’offesa.
Altri importanti ostacoli che si trovano sulla strada della decisione interiore di perdonare sono l’orgoglio e la superbia. Perdonare viene infatti erroneamente assimilato al ‘perdere la battaglia’, allo ‘svalutarsi’, all’umiliarsi, quando invece solo una tempra straordinaria e un carattere autenticamente maturo ed adulto sono in grado di perdonare. Solo un animo solido e fondato su valori umani ed etici profondi è in grado di accogliere il dolore che consegue alla decisione di perdono. Finché permangono residui di onnipotenza infantile non è possibile accettare il limite umano del partner che è lo specchio impietoso del limite umano dentro noi stessi. Ecco perché il perdono è ancora una volta una decisione interiore realizzata con il cuore: la presunzione di avere ragione, la supponenza di chi sa di essere nel giusto, la pretesa di avere soddisfazione (o vendetta) finiscono inevitabilmente con cristallizzare il dolore e inasprire le lacerazioni.
Perdonare il partner ha invece una straordinaria importanza non solo per il mantenimento e il miglioramento della relazione, ma ha anche un effetto di formidabile potenza sull’evoluzione interiore dell’individuo. Riuscire a vedere l’errore del partner con gli occhi del cuore, significa riconoscere anche in se stessi la fragilità della propria esistenza, significa accedere alla gratitudine per l’immenso dono della vita, significa scorgere la grande opportunità di crescita e di evoluzione che il partner – anche con i suoi limiti – ci offre quotidianamente.
Perdonare l’Altro inoltre ci apre la strada ad un evento ancora più importante ma strettamente collegato: il perdonare noi stessi.
Perdonarsi infatti è perlopiù considerato superfluo, inutile, talvolta privo di senso: ‘di cosa dovrei perdonarmi?’ Eppure nel profondo di ogni individuo risiedono silenti e apparentemente immobili, profondi sensi di colpa: sia per colpe reali, per errori, per superficialità, ma anche per colpe inesistenti, immaginarie, per colpe irreali ma vissute e percepite come se fossero perfettamente reali. Insieme al perdono per il partner è molto utile quindi affermare il proprio perdono per motivi che vanno dalla ricerca della perfezione assoluta (e quindi umanamente irraggiungibile), a tutte le pretese rabbiose, al desiderio di potenza e di onnipotenza, ai tanti pensieri negativi e collerici, all’allontanarsi dal proprio cammino evolutivo.
Il perdono nella coppia è quindi una meravigliosa occasione per fare un importante salto di qualità, per passare ad un più elevato livello esistenziale sia personale che all’interno della relazione.
Proibiti anche per i genitori, come chiede l’Onu Ma in altri 89 Paesi sono permessi a casa e a scuola “No, non ce la faremo per il 2009”. Il countdown è partito da tempo, ma Paulo Sérgio Pinheiro è costretto a prendere atto che si allontana la fine delle sculacciate ai bambini permesse per legge. Incaricato dal segretario generale dell’Onu di preparare il rapporto sulle violenze contro i minori, nel 2006 era stato lui a fissare questo termine, che sarebbe caduto in concomitanza con il ventennale della Convenzione sui diritti dell’infanzia, l’anno prossimo. Ma convincere tutti gli Stati a vietare entro il 2009 ogni forma di correzione fisica verso i più piccoli—ceffoni di mamma e papà compresi — si è rivelata un’utopia.
«Purtroppo l’obiettivo è saltato — ammette Pinheiro al telefono da Asunción, Paraguay —.
Sono stati fatti passi avanti, ma non nella misura che speravamo».
Progressi monitorati dal nuovo rapporto internazionale «Iniziativa globale»: gli Stati che proibivano a chiunque (anche ai genitori) di mettere le mani addosso ai piccoli nel 2006 erano 16 e ora sono diventati 23 (18 europei) mentre a permettere bacchettate e altri «castighi correttivi» a scuola sono rimasti 89 Paesi (106, 3 anni fa).
Si procede dunque, ma più lentamente del previsto. A rallentare la corsa ci sono anche gli Stati Uniti, che non hanno ratificato la convenzione per i diritti dell’infanzia. Ancora oggi in 21 dei 50 Stati americani gli insegnanti possono alzare le mani: di solito colpiscono (dalle 3 alle 10 volte) il fondoschiena con il paddle, la tradizionale pala di legno piatta, lunga mezzo metro. Sono gli Stati centrali della Bible belt (la «cintura della Bibbia») americana, dove la gente s’ispira al «risparmia la verga e vizierai il bambino» (Proverbi 13-24). «I più colpiti sono gli afroamericani: sono il 17% degli alunni ma quasi il 40% di quelli percossi», racconta Alice Farmer di Human Right Watch, snocciolando i risultati dell’ultimo studio sulle pene corporali nelle scuole Usa. I maschi le prendono più delle femmine, i bambini di campagna più di quelli di città. Nel complesso i piccoli americani percossi a scuola sono scesi di un terzo in pochi anni: da 300mila nel 2002-2003 a 200mila di oggi. Indice che le maniere forti tra i banchi sono comunque destinate a scomparire. Non è invece in discussione il diritto dei genitori a schiaffi e sculacciate, permessi in tutti e cinquanta gli States.
Di tutt’altro segno la situazione al di qua dell’Oceano. In Europa le bacchettate a scuola sono praticamente scomparse. Tra gli ultimi a bandirle, la Gran Bretagna. Ora nel Vecchio Continente la nuova sfida per le associazioni dei diritti dell’infanzia è proibire anche i ceffoni dei genitori.
Nel 1979 la Svezia è stata il primo Paese al mondo a vietarle.
Seguirono Finlandia (1983), Norvegia (1987), Austria (1989). Gli ultimi arrivati sono Spagna, Cile e Costa Rica. In totale 23 Paesi. Gli altri Stati continuano a considerare sberle e sculacciate sistemi educativi efficaci, non classificabili come punizioni corporali.
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«Se usate per il bene del bambino e non come reazioni scomposte alla frustrazione e alla rabbia, possono evitare danni ben maggiori» sostiene Peter Inson, ex insegnante a Londra, giornalista e scrittore di libri per adolescenti. Lui rivendica l’utilità dello scappellotto per marcare limiti invalicabili quando le parole non bastano. Si pensi, ad esempio, al piccolo che si ostina a scavalcare la ringhiera del balcone o che picchia un amichetto. «Le proposte di mettere fuorilegge gli scapaccioni —spiega —sono avventate e destinate a mandare in confusione i genitori». Ma è proprio contro questa mentalità che combatte Pinheiro: «La cosa più sconcertante è constatare che anche nei Paesi democratici si continua ad avere un atteggiamento autoritario nei confronti dei figli. Se li picchi, dicono, è per raddrizzarli, è per il loro bene. Quello che non è più lecito sulle donne e ormai nemmeno sui cani, lo resta sui bambini».
Tra i 155 Stati che ammettono il ricorso al ceffone da parte dei genitori c’è l’Italia: una sentenza della Corte di Cassazione nel 1996 ha dichiarato illegittima ogni forma di punizione corporale ma la legge non c’è ancora. «Esiste un diritto familiare che è diverso da quello pubblico — osserva Valerio Neri, direttore di Save the Children Italia —. Che un ragazzo a scuola non vada educato a scapaccioni è accettato, mentre altra cosa è quel che è ammesso tra le mura domestiche. Che lo Stato possa proibire ai genitori di punire i figli viene considerata un’indebita intrusione». Incalza Pinheiro: «A volte si ha l’impressione che il rispetto dei diritti umani si fermi di fronte alla porta di casa, e questo perché i bambini sono considerati proprietà dei loro genitori: un modo di pensare trasversale a culture e livelli sociali».
La legge britannica consente sculacciate moderate, ma non punizioni che procurino lividi, ferite e gonfiori. La proposta d’introdurre il divieto assoluto di «suonarle» ai bambini invece è stata respinta un anno fa quando da un’indagine di Downing Street è emerso che per molti genitori la disciplina si è deteriorata da quando il «bastone» è stato abolito.
«Il rimpianto verso castighi e pene corporali si spiega con il fatto che si toglie uno strumento di controllo senza sostituirlo con altri. Bisogna accompagnare il divieto con un training che insegni metodi alternativi», spiega Elda Moreno, responsabile della divisione diritti dei bambini del Consiglio d’Europa, promotore di una campagna contro le
punizioni corporali anche in ambito familiare. «Il caso della Svezia è indicativo: quando le punizioni corporali sono state vietate 30 anni fa l’80% dei genitori era contrario; oggi, dopo molti anni di supporto a famiglie e insegnanti, solo il 5% di loro le ritiene accettabili».
Anche Jo Becker di Human Right Watch insiste su questo punto: «La Svezia è un caso riuscito perché al divieto ha unito un training, in Kenya invece non è successo: a 8 anni dal divieto le punizioni corporali sono ancora in voga».
Nel mirino ci sono i governi: «Non è una questione di criminalizzare i genitori, non vogliamo mandarli in galera perché danno una sculacciata ai figli — sintetizza Pinheiro — ma chiediamo che cambi la nozione di quello che è accettabile: gli Stati non si stanno impegnando abbastanza su questo».
Núcleo de Estudos da Violência – NEV – Universidade de São Paulo – USP http://www.nevusp.org/portugues
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Oscar mondadori
“Non insegnamo basandoci su regolamenti e programmi ma attingendo a quanto è vivente”
Dall’eclettico filosofo di inizio Novecento, fondatore della celebre scuola steineriana, una riflessione profonda sui metodo pedagogico.
Una teoria educativa basata sulla libera espressione delle potenzialità del bambino attraverso l’apprendimento di tutte le arti. Per formare degli individui liberi da condizionamenti in cui pensiero, cultura, sentimento e volontà cooperino in armonia. Lo trovi su Macrolibrarsi
Quello che dici e come ti comporti avrà negli anni un’influenza determinante sul modo di vivere di tuo figlio.
Dipende molto da un genitore il fatto di aver cresciuto un individuo dalla personalità instabile, oppure una persona serena e matura.
La buona notizia è che – riflettendo sui tuoi atteggiamenti e applicando le 100 regole – comincerai automaticamente a correggere tante piccole fobie e tante cattive abitudini e a introdurne invece di positive. Positive per te e soprattutto per il benessere presente e futuro dei tuoi figli.
Genitori e Figli: le Regole del Gioco è un libro in cui gli autori spiegano in maniera diretta, efficace e concreta tutto quello che può risultare controproducente nell’educazione, offrendo consigli utili per evitare errori cui si potrebbe porre rimedio solo attraverso lunghe e faticose terapie.
In questo manuale sull’educazione dei figli gli autori, basandosi sulle teorie di Bert Hellinger, analizzano l’importanza degli «ordini dell’amore» in seno al nucleo familiare e la «struttura profonda» su cui esso si basa.
Negli ordini dell’amore sono fondamentali, ad esempio, l’equilibrio tra dare e prendere, i concetti di merito e gratitudine, di colpa e perdono, il giusto modo di ripartire obblighi e responsabilità, i problemi legati all’appartenenza e all’esclusione, la parità nel rapporto di coppia, l’accettazione del proprio destino e di quello del resto della famiglia e, in particolare, il modo corretto di stringere legami e di capire quando è il momento giusto per lasciare che i figli scelgano la loro strada.
Un manuale per genitori e famiglie nuovo e originale, estremamente pratico (grazie ai numerosi esempi tratti dalla vita reale) e «pronto per l’uso».