Non c’è nulla che sia permanente, ne abbiamo la continua riprova, eppure continuiamo a credere che sia possibile. Abbiamo visto amori e amicizie svanire, abbiamo visto progetti naufragare, aspettative non soddisfatte, desideri trasformati in dolore…
La riflessione che facciamo successivamente è sempre la stessa: “poteva andare meglio se… la colpa è sua però… magari avessi fatto questo invece di quello… se avessi scelto meglio, se avessi ascoltato quel consiglio, quella sensazione…”. Il tutto sempre con il senno di poi, ovviamente.
Per quanto ci si ostini a credere che ci sarà una volta buona, prima o poi, che ci garantirà una stabilità noi resteremo sempre delusi. Questo vale per qualsiasi ambito noi vogliamo orientare, indirizzare, le nostre speranze.
E’ amaro constatarlo, ma questa presa di consapevolezza è il primo spiraglio di luce per uscire dal circolo vizioso che ci imprigiona. E’ d’obbligo. Il castello di sabbia dei sogni, per quanto sostenuti dalla presunta maturità derivata dalle vecchie esperienze, è destinato a non durare.
E’ solo questione di tempo. E’ la natura delle cose. L’unica dimensione che è inattaccabile dal cambiamento, inalterata e inalterabile, è la Coscienza specchio in cui tutta la mutevolezza scorre con un eterno fiume di eventi e di pensieri. E’ lì che dobbiamo trovare la nostra dimora. Allora ogni film che saremo chiamati ad interpretare rimarrà sempre un qualcosa di cui sappiamo che è per sua natura mutevole.
Vogliamo continuare a fare girare questa ruota di dolore, paura e desiderio o provare a vedere se c’è una via d’uscita a questo stato di cose, che ci riporta inevitabilmente al punto di partenza?
Io credo che sia possibile scendere da questa giostra. Quando lo avremo fatto,allora anche amori, amicizie, relazioni, progetti, intenzioni… saranno basati su una centratura che ci permetterà di viverli adeguatamente. Senza i capogiri delle illusioni infrante, senza aspettarci nulla che non sia la fragranza del vissuto pienamente in quel preciso momento. L’unico istante che può creare il successivo in maniera nuova e positiva. In quella condizione di consapevolezza, seppur con l’abito vecchio, potremo essere realmente uomini nuovi, spiritualmente rinati.
Nel processo del riemergere della verità fondamentale in ciascuno, i Maestri ci riconducono continuamente a Noi Stessi, accettano la nostra devozione verso di loro, poichè così impariamo ad aprirci alle Forze di Luce e si creano le situazioni per offrirci l’insegnamento. Incontrare i Maestri sul piano fisico può essere necessario o non esserlo, non esiste anche qui una regola fissa ma esiste una verità per ogni momento, per ogni situazione e per ciascuno di noi; il loro unico scopo che siano incarnati fisicamente o che ci siano vicini dal Piano Spirituale, è quello di condurci a scoprire l’ESSENZA.
Nel caso di un Maestro incarnato, la presenza, la parola, il tocco, lo sguardo, sono Iniziatori, danno avvio in noi a dei profondi processi di Trasmutazione; la loro energia iniziatrice entra in noi sempre più in profondità in virtù dell’atteggiamento di amorevole fiducia che sviluppiamo nei loro confronti. E’ stato dato all’uomo il Libero Arbitrio quindi egli può chiudersi in se stesso e rifiutare qualsiasi aiuto, questa è la vera morte da temere: l’orgoglio. Se percepiamo la forza d’Amore di Verità del nostro Maestro o dei Maestri che incontriamo accettiamo di vedere noi stessi in loro come se fossero specchi così leggiamo e decifriamo la nostra Realtà interiore, vediamo in loro amplificata e realizzata la nostra Parte Divina; questo ci dà tanta gioia, pace e fiducia. Allora accettiamo di vedere attraverso loro la nostra parte più umana e terrestre, accettiamo di dissolvere il nostro orgoglio, ogni azione visibile e invisibile di un Maestro, di una Guida o di un Iniziato, procede dal Centro, dall’ESSENZA portando Energia Innovatrice e in questo procedere incontra le barriere e gli ostacoli che col tempo ciascuno di noi si è creato. Questi punti nei quali ci siamo lasciati più o meno involontariamene morire sono come buchi neri che sembrano vanificare ogni nostro impegno nel positivo ma non è tutto lasciato alle nostre piccole forze, i Maestri risvegliano in ogni buco nero un seme di Luce che attraverso la nostra collaborazione nel tempo spezzerà il meccanismo involutivo di morte. Non esiste però alcun progresso senza la nostra ferma determinazione di superare, coordinare, comprendere la prova che abbiamo davanti elaborandola e metabolizzandola, ogni insegnamento ci riconduce esclusivamente al nostro vero SE, rieducandoci ad accettare e riconoscere in ogni evento anche banale della vita un’occasione per crescere.
Quando troviamo il contatto con il nostro SE interiore possiamo accettare e riconoscere il senso degli eventi, iniziamo a vedere le cose nella loro vera Luce, gli eventi apparentemente negativi producono turbamenti, problemi e difficoltà che possono esserci di guida non come fini poichè il fine è tutt’altro ma come mezzi di risveglio per scuoterci dal torpore nel quale abbiamo forse troppo a lungo vissuto credendo di essere svegli.
Nella nostra società le persone si toccano in modo stereotipato. Il contatto ha assunto un carattere formale che va dall’estremo della stretta di mano, all’atto sessuale…ed in mezzo, un grande vuoto.
Se il sentimento della solitudine è così diffuso, le cause sono da ricercare almeno in parte in questa semplice realtà, non siamo toccati abbastanza e con amore
Il contatto, quando è applicato con amore, è un filo d’ Arianna che consente di uscire dal labirinto più buio.
In questo senso il massaggio può schiudere nuovi orizzonti alla persona più solitaria, mentre permette a chi gode già di buone relazioni, di migliorarle creativamente.
Grazie al massaggio molti di noi potranno sperimentare che siamo isolati solo se intendiamo rimanerlo,questa esperienza sarà semplicemente il punto di partenza per nuove avventure dello spirito, e chi ancora non lo conosce, se ne innamorerà!
Quando si tocca la pelle di una persona, si arriva facilmente a toccarla nelle sue profondità, nelle emozioni, nei sogni irrealizzati, nella vita dell’immaginazione, nei ricordi e nell’anticipazione.
Il toccare è raramente neutro. Più spesso commuove o infastidisce, ci fa conoscere il piacere o il fastidio,provoca in noi la tranquillità e la fiducia, o la collera ed il rigetto.
Di qui l’importanza di imparare a toccare l’altro con rispetto, con interesse e amore, se vogliamo conferire alle nostre relazioni un carattere di verità e bellezza.
Il massaggio californianoè noto per la sua dolcezza, la sua soave sensibilità, per la sua tenerezza…
La tenerezza è uno dei sentimenti più delicati. Presuppone simpatia ed è il contrario della violenza,dell’astuzia e della volontà di controllare l’altro. E’ anche il contrario dell’indifferenza. Proviamo il desiderio di essere teneri con tutto ciò che è soffice, piccolo, bello ed indifeso e che si merita di rimanere vivo.
E’ il sentimento che si manifesta allorchè teniamo in mano un pulcino e non vorremmo che fosse schiacciato.
La tenerezza è un sentimento al femminile, e gli uomini che hanno bisogno di conoscerla vanno a scuola dalle donne: nei loro rapporti, gli uni e le altre si scambiano le loro reciproche qualità.
Ecco spiegata l’essenza segreta del massaggio. Questo affascinante, esclusivo tipo di rapporto, permette a chi lo riceve di progredire, perchè attraverso la tenerezza gli consente in primo luogo di essere!
L’Innamoramento è lo stato più magico che possa esistere.
Quando ti innamori vivi in un’altra dimensione. L’amore è in assoluto ciò che ti permette di provare la gioia autentica. L’innamoramento è in grado di cambiare una persona. Improvvisamente diventi più buono, gentile, disponibile. Il mondo diventa improvvisamente più bello e persino le persone che normalmente consideravi poco gradevoli diventano inaspettatamente piacevoli. Questa è la magia dell’amore.
Il problema però sembra dato dal fatto che tale condizione non duri in eterno. L’innamoramento sembra avere un termine. Superato questo lasso di tempo subentra spesso la noia e ciò che sembrava magico non lo è più. La maggior parte delle persone dice che tutto questo è fisiologico.
Cosa ne pensi? L’innamoramento è soprattutto uno stato emozionale e dipende da noi mantenerlo vivo o farlo morire. Il partner spesso non ha nulla a che vedere con questo nostro “calo di entusiasmo”.
Il segreto per mantenere un rapporto vivo e giovane dipende soprattutto dal nostro atteggiamento mentale e dal nostro saperci re-innamorare ogni giorno.
Cosa vuol dire re-innamorarsi ogni giorno? Vuol dire non dare nulla per scontato e considerare la persona che hai accanto come un regalo.
Spesso dopo un pò che stai con il tuo partner dai per scontate le sue attenzioni, il suo esserci. Consideri l’altra persona come dovuta. Non c’è nulla di dovuto nell’amore. Quindi se vuoi mantenere vivo il tuo rapporto e farlo crescere ogni giorno devi imparare a re-innamorarti.
Cosa vuol dire re-innamorarsi? Vuol dire entusiasmarsi, stupirsi, gioire di ogni piccola cosa che si condivide con il proprio amato: un caffè, un aperitivo, una passeggiata, una risata. Vivi tutto come se fosse il primo giorno. Vivi ogni giorno il tuo San Valentino. Stupiscilo con un pensiero, un regalo, un messaggio romantico. Connettiti con il romanticismo dei primi tempi e gli effetti saranno sorprendenti.
Qualche tempo fa, una persona di mezz’età che attraversava un periodo di difficoltà relazionali, mi confidò di aver assunto un Investigatore privato allo scopo di pedinare il marito e verificare alcuni sospetti. In effetti, i risultati dell’indagine furono in linea con le supposizioni, poichè fu dimostrato che questo signore si intratteneva con un’altra donna ormai da diversi mesi. Questo fu il prologo di una richiesta di aiuto che avrebbe dovuto ricostruire la coppia ormai lacerata e ricompattare le mura familiari ormai quasi del tutto franate. Nel corso dei colloqui emerse che assumere l’Investigatore era stato soltanto l’ultimo degli stratagemmi escogitati per avere conferma dei sospetti. Prima di allora, le strategie si erano contenute al puntuale controllo dei messaggini SMS e nella lettura minuziosa di alcuni appunti presi dal marito. Dal momento che i sospetti furono confermati, i colloqui iniziarono ad assumere una piega da una parte accusatoria nei confronti del marito colpevole, e dall’altra desiderosa di ottenere da parte mia, conferme e approvazioni. I fatti parlavano chiaro: questo signore aveva un’altra donna, più giovane e senza figli, e questa relazione pare durasse ormai da quasi sei mesi.
La persona che aveva chiesto il colloquio, e che con uno pseudonimo chiamerò Anna, era dunque in mezzo ad un pericoloso guado. Da una parte aveva l’idea, del tutto illusoria, della coppia “del passato” così come era stata negli anni precedenti, e il cui ricordo era ammantato di una assoluta, perfetta, rosea armonia di cui ero fortemente perplesso. Dall’altra aveva di fronte la coppia “del futuro”, la cui immagine era frammentata e lacerata da angosce e paure. Oltre a ciò, Anna era combattuta tra il bisogno di chiudere velocemente lo strappo, con un perdono rapido ed indolore che avrebbe – almeno nelle intenzioni, idealmente – riportato il marito verso il letto coniugale, e dall’altra il forte bisogno di vendetta che gli avrebbe consentito di dare finalmente sfogo alla tanta rabbia accumulata nei mesi precedenti. La confusione era quindi poi accentuata da riflessioni personali ed intime che questo evento aveva improvvisamente portato alla luce e che riguardavano il senso di fallimento personale, la ricerca di un senso da attribuire alla vita fino ad ora trascorsa, la paura della solitudine, il senso di abbandono, la ferita del tradimento, la perdita della fiducia nella vita.
Quando nel corso dei colloqui, cominciammo ad esplorare le aree dei meccanismi di difesa, cominciò ad emergere un quadro relazionale che fu particolarmente prezioso per tutto il lavoro successivo. Emerse che, dopo la nascita dei figli, il marito (descritto come una persona sensibile ed affettuosa) si era progressivamente estraniato dalla famiglia per dedicarsi pressoché integralmente alla carriera professionale. Questo investimento gli aveva fruttato non poche soddisfazioni e una crescita che nel tempo lo aveva condotto ai più alti vertici aziendali. Anna, dal canto suo, si era invece dedicata alla crescita dei tre figli e al menage familiare, svolgendo una funzione praticamente di tutto-fare. Infatti, oltre a dedicarsi ai figli, organizzava meticolosamente la giornata del marito, predisponeva accuratamente i vestiti del giorno dopo, pianificava minuziosamente i viaggi e i pranzi di lavoro, progettava con cura quasi ossessiva le vacanze, curando i più minimi dettagli fino all’itinerario, le soste, le passeggiate fotografiche, ecc. Questo stato di equilibrio era durato per diversi anni.
Poi però aveva cominciato a vacillare una prima volta, quando il primogenito raggiunse la maggiore età e scelse di studiare in una città vicina, appoggiandosi alla casa di alcuni parenti. Ma questo primo terremoto, rientrò – racconta Anna – “perché presi a dedicarmi con maggiore intensità, ai problemi scolastici del secondogenito, che ormai da tempo erano diventati sempre più gravi”. Man mano che emergevano i racconti, dagli scenari narrati lentamente cominciava a percepirsi un quadro di relazioni per quanto scrupolose, ma spesso asettiche, razionali, limitate agli aspetti logistici ed organizzativi di una famiglia numerosa. Le comunicazioni erano pressoché integralmente comprese in ciò “che bisognava fare, ciò che dovevamo fare”. Mancava del tutto la dimensione del piacere, della condivisione, del godimento reciproco. La sensazione era che mancasse proprio una “dimensione di coppia”. La coppia originaria – cominciai a proporre ad Anna – probabilmente era stata sequestrata e tradita già molto tempo prima delle fotografie scattate dall’Investigatore privato. Proposi quindi di collocare il tradimento nel momento in cui i partner avevano permesso che la Famiglia schiacciasse la Coppia, magari pensando del tutto in buona fede, che fossero essenzialmente la stessa cosa.
Man mano che il lavoro procedeva sempre più profondamente, raggiungiamo una tappa molto importante e che riguarda non tanto la coppia, quanto principalmente il vissuto personale ed intimo di Anna. Dalla storia generazionale emerge infatti che Anna è una secondogenita, nata dopo una sorella e prima di un fratello. I genitori di Anna, molto tradizionalisti, avevano sempre desiderato un maschio, e dopo la delusione della prima figlia, avevano sperato che almeno il secondo parto li avrebbe appagati. Le cure dei genitori furono quindi rivolte pressoché esclusivamente alla primogenita e alle sue aspirazioni verso la danza classica, e al terzo figlio maschio che è rimasto il cucciolone della famiglia. Anna racconta e fa emergere una quantità enorme di episodi dove denuncia la propria sostanziale invisibilità e incapacità di attrarre le attenzioni, le cure e l’amore dei genitori. “Non mi hanno fatto mai mancare nulla – riferisce – ma se devo essere sincera, tante volte che avrei avuto bisogno di loro per i miei piccoli grandi problemi, era come se non esistessi”. Ecco allora che propongo ad Anna di mettere insieme parti che solo apparentemente sembrano separate dal tempo.
Ed in effetti Anna prende coscienza che la cura e la meticolosità che poneva nell’organizzazione pressoché dell’intero universo familiare, aveva come sfondo il bisogno di essere vista ed amata. Questa consapevolezza per Anna è quasi folgorante. In un attimo riesce a vedere se stessa prima bambina con il suo vuoto affettivo e il suo legittimo desiderio di essere amata e poi quasi contemporaneamente, osservare se stessa, adulta, che curando ossessivamente ogni minimo dettaglio, è ancora lì, congelata nel medesimo atto di essere vista, riconosciuta, e finalmente apprezzata e amata. Il bisogno di controllare ogni istante della vita dei familiari aveva finito con il perdere il suo scopo originario (ottenere l’affetto) e aveva assunto quasi una vita propria, soffocando gli spazi di coppia. Il meccanismo di difesa che la proteggeva dal dolore di non essere stata amata, aveva assunto nel tempo un carattere invasivo, indiscreto, quasi petulante. Le sue continue verifiche, controlli, le ispezioni negli zaini dei ragazzi o negli orari del marito, si erano lentamente trasformate in una sorta di sorveglianza pressoché continua che impediva la libertà affettiva.
Mentre l’inconscio ferito di Anna era ancora convinto di agire per la propria protezione dal dolore, in verità finiva per ottenere paradossalmente l’effetto contrario. Questo importante passaggio, ha determinato una nuova e diversa consapevolezza di Anna, e una migliore conoscenza dei propri modelli relazionali. Di per sé tuttavia, questo “giro di boa” non aveva ancora portato nessun risultato concreto. Il lavoro successivo fu quello di allenarsi a mettere in pratica la propria nuova visione delle cose. Non fu facile quindi accettare che il proprio vuoto affettivo non dipendeva soltanto dalle assenze del marito, ma era piuttosto un elemento molto più antico, profondo e che affondava le radici addirittura nella storia familiare di Anna e nel suo vissuto intrauterino. Era già infatti sin dal concepimento che Anna aveva percepito intuitivamente che vi era un’atmosfera di non accettazione nella sua famiglia di origine: se voleva amore e attenzione sarebbe dovuta almeno nascere maschio. Prendere su se stessa il carico e la responsabilità di questa consapevolezza le fu di grande aiuto, perché le consentì in primo luogo, di uscire da un terribile circolo di autocommiserazione e di vittimismo.
Inoltre, le consentì progressivamente di lasciar-andare, di “mollare” quel senso di iper-controllo che pesava su ogni componente della famiglia. Evitare il controllo non fu per nulla facile e necessitò di diverso tempo e comprensibilmente di diversi tentativi. Anche perché Anna aveva ormai avuto la conferma del tradimento del marito, quindi una parte di sé, riteneva positiva questo strumento di difesa. Tuttavia si trattò di un allenamento che con il tempo diede risultati davvero eccellenti. Man mano che Anna riusciva ad essere meno invadente, progressivamente cresceva la sua capacità di strutturare in maniera affettiva (e non più soltanto razionale ed organizzativa) le relazioni sia con i figli che con il marito. La logistica, giorno dopo giorno, lasciava sempre più spazio alla verità dei bisogni di attenzione, di presenza, di amore, non più pretesi, ma sempre più chiesti come dono. Altro elemento che ricominciò ad emergere tra i partner fu la riapparizione della fiducia. Gli sforzi di Anna di essere sempre meno iperpresente nella vita del marito, consentivano un dialogo sempre più sincero.
Con il tempo si verificò quello che ad Anna appariva come una specie di miracolo: mentre prima, più controllava il marito illudendosi di tenerlo a sé e più questi si allontanava, man mano che accettava di non controllarlo, il marito sembrava manifestare timidi tentativi di riavvicinamento. Paradossalmente (ma solo apparentemente), mentre Anna smetteva di essere indispensabile a tutti i costi, gli altri (marito compreso) cominciavano progressivamente ad aver sempre più bisogno di lei. Non si trattava di stravaganti teoremi sull’amore, secondo i quali “se fuggi sei inseguito”, ma semmai del processo di trasformazione, ben più profondo, che Anna aveva avviato su se stessa. Invece di continuare inconsciamente a rimpiangere l’amore non ricevuto dai suoi genitori, ne aveva preso coscienza e aveva deciso di smettere di essere indispensabile per ottenerlo. Anna cominciò un nuovo e rivoluzionario cammino personale che l’ha portata a comprendere l’amore per se stessa, con enormi effetti positivi, il primo dei quali, pratico e concreto, che smettere di controllare ossessivamente ogni dettaglio della vita di tutti, le lasciava ora un’enorme quantità di tempo libero a disposizione e molte più energie e risorse.
Ma gli effetti positivi non si sono limitati a questo. Ad oggi il marito ha diminuito moltissimo i suoi famosi “straordinari”, le sue “riunioni” fino a notte fonda, e anche le sue improrogabili “trasferte fuori città” si sono ridotte a poche all’anno. I rapporti sessuali pian piano sono ripresi, ma soprattutto la qualità della vita è molto migliorata e sta ancora cambiando in meglio. Le assenze del marito si sono concretamente trasformate in piccole grandi attenzioni, in presenza, partecipazione, affetto, amore. Gli spazi progressivamente lasciati da Anna sono stati occupati dal marito, che ha finalmente detto che “… quest’anno, invece del solito mare, vorrebbe andare in montagna, in una località da scegliere assieme!”. Anna non può avere la certezza fotografica che il marito non frequenta più altre donne (perché le ho prescritto di non utilizzare più l’Investigatore), ma – riferisce – di esserne in ogni caso sicura, di averne una certezza interiore “…che non si può spiegare a parole. Me lo sento”.
La coppia è una delle più grandi e meravigliose opportunità che la vita ci offre per apprendere l’Arte di amare.
Le relazioni di coppia sono anche una straordinaria occasione per trasformare vecchi modelli relazionali e schemi mentali di comunicazione, in nuove forme e nuove modalità di percepire noi stessi nel mondo e in relazione profonda con un Altro. La coppia è quindi un’arena dove sperimentare continuamente nuovi ‘abiti’ esistenziali e dove verificare – passo dopo passo – il nostro personale cammino evolutivo.
Uno degli elementi più insidiosi e che più facilmente portano disagio nella relazione di coppia è il giudizio critico. Anche se non ce ne accorgiamo, siamo addestrati e condizionati a giudicare continuamente. Ogni oggetto, evento, circostanza, episodio e occasione della nostra vita sono sottoposti inevitabilmente al nostro conscio o inconscio giudizio.
Questo meccanismo giudicante automatico opera anche all’interno della vita di coppia, e provoca spesso disastri che a lungo andare diventano importanti.
Se vogliamo quindi ‘prevenire’, l’opera più efficace di prevenzione è quella di astenerci dal giudicare, dal criticare, dal misurare ed esprimere sempre il ‘voto’, come invece ci suggerisce il nostro meccanismo ‘giudicante’. Il giudizio dell’Altro infatti – seppure apparentemente supportato da una ragione logica, sostenuto da un ragionamento apparentemente coerente e rigoroso – spesso è un contenitore per veicolare emozioni e sentimenti quali rancore, dispetto, rabbia, insofferenza, odio, ecc.. Se proprio non ne possiamo fare a meno, cerchiamo almeno di esprimere più che la critica, manifestare l’emozione che il partner ci provoca, ovvero il nostro ‘sentire’ in risposta al partner. Questo sistema che può essere definito ‘Parlare in prima persona’, presenta innumerevoli e riconosciuti vantaggi relazionali. Facciamo un esempio banale: quando il partner, malgrado gli avvertimenti, per l’ennesima volta lascia il tubetto di dentifricio aperto, invece di colpevolizzarlo e di accusarlo, proviamo ad utilizzare il sistema di ‘Parlare in prima persona’, dicendo ad esempio che la vista del dentifricio aperto provoca in noi un senso di disagio, oppure un senso di rabbia per il consumo inutile e lo spreco, oppure meglio ancora un senso di frustrazione perché ci ricorda i rimproveri di un’educazione rigorosa.
In altre parole, poniamo e facciamo porre l’attenzione del partner sul disagio che ci provoca e non sul modello filosofico, culturale o etico anti-capitalista ed ecologicamente compatibile. ‘Parlare in prima persona’ aiuta il partner a comprendere profondamente: perlomeno offre un’opportunità per fondare una piattaforma iniziale per un dialogo autentico. Poi è compito di entrambi i partner di svilupparla fino a farla diventare uno stile di comunicazione abituale e positivo.
E’ ampiamente dimostrato che la maggioranza dei litigi o dei conflitti di una coppia sono fondati su discussioni apparentemente banali o di poca importanza: i conflitti realmente ‘vitali’ sono pochissimi e spesso si concludono rapidamente. Le battaglie più estenuanti invece sono proprio quelle istituite sul famoso tubetto di dentifricio piuttosto che sul luogo delle vacanze, sui ritardi agli appuntamenti: insomma niente che vada a toccare i valori profondi dei partner, o il loro progetto di coppia.
Eppure le migliori energie sono impiegate in baruffe e scaramucce che – al di là di ogni banale apparenza – possono alla lunga logorare realmente un rapporto fino a farlo concludere amaramente.
E’ molto utile in questi casi porsi interiormente la seguente domanda: “Ma per me, in questo preciso momento, è più importante avere ragione ed essere confortato dalla soddisfazione, oppure è più importante stare bene con te?”
Di solito se posta con spirito sincero, questa domanda ‘interiore’ è straordinariamente efficace nel far cessare immediatamente le ostilità.
Certamente non basta porsi occasionalmente una domanda interiore: ma è utile interrogarsi profondamente su quali siano i Valori su cui è costruita la propria relazione, chiedersi autenticamente su quali siano le proprie finalità e quali invece le priorità all’interno della coppia.
Quando poi non è più possibile fare ‘opera di prevenzione’, perché le ferite sono ormai consolidate e i dolori sono incancreniti, allora possiamo utilizzare lo strumento del perdono.
Con una piccola avvertenza: perdonare non è facile per moltissimi motivi, ma anche perché il perdono non è una procedura, un complesso di regole, non è un procedimento composto da una serie di criteri o di step, ma si tratta di una decisione interiore realizzata con il cuore. In questi casi, la razionalità non ci aiuta: anzi, spesso ci consiglia di non perdonare e ci mostra con ogni lacerante, ovvia logicità tutte le ragioni (spesso valide!) per cui il perdono non può essere concesso.
Se vogliamo perdonare, dobbiamo quindi realizzare un piccolo miracolo: ovvero astenerci dal valutare una situazione esclusivamente con gli occhi della razionalità, ma concederci di osservarla solo con gli occhi del cuore. La nostra razionalità infatti ha già evidentemente ‘giudicato’ e probabilmente – sulla base di fatti concreti, reali e autentici – ha emesso la sua terribile sentenza di condanna. Se un partner riceve un’offesa, un tradimento, gli viene negato un diritto, scatta inevitabilmente un dolore profondo che spesso non può essere vinto se i partner rimangono pervicacemente legati al ‘piano razionale’: su questa piattaforma ciò che conta è soltanto l’analisi dei fatti, concludere ‘chi ha ragione’ e ‘chi ha torto’ ed emettere una sentenza di condanna.
Questo tipo di analisi – indipendentemente dalla correttezza formale – non è assolutamente utile quando si tratta di dolore umano. Il ciclo del dolore viene spezzato solo dal potere del perdono: non esistono scorciatoie, magie o ricette miracolose. Se vogliamo fare uso dello straordinario strumento del perdono, dobbiamo quindi non solo fare a meno della nostra parte razionale, ma forse dobbiamo anche per una volta, dargli un po’ meno importanza.
Il perdono infatti si pone come finalità ultima quella della riconciliazione, della rappacificazione (interiore o con un’altra persona): tale obiettivo diventa la meta più importante, il fine assoluto a cui va sacrificata ogni considerazione logica, ogni analisi raziocinante. Per vincere la straordinaria forza della razionalità (e del bisogno di vendetta) che lascia inevitabilmente nella lacerazione e nel dolore, dobbiamo usare lo strumento della decisione interiore realizzata con il cuore.
Non perdonare il partner significa attribuirgli una colpa indelebile ed indistruttibile: simbolicamente è come portare quella colpa al di sopra del mondo umano per trasformarla in una colpa eterna, ultraterrena, quasi soprannaturale. Perdonare significa invece offrirgli una possibile riparazione: anche quando l’offesa ricevuta è profonda, concedere una riparazione metaforica significa accettare l’umanità del gesto, la fragilità del partner riconoscendola come una fragilità di tutto il genere umano, anche di chi riceve l’offesa.
Altri importanti ostacoli che si trovano sulla strada della decisione interiore di perdonare sono l’orgoglio e la superbia. Perdonare viene infatti erroneamente assimilato al ‘perdere la battaglia’, allo ‘svalutarsi’, all’umiliarsi, quando invece solo una tempra straordinaria e un carattere autenticamente maturo ed adulto sono in grado di perdonare. Solo un animo solido e fondato su valori umani ed etici profondi è in grado di accogliere il dolore che consegue alla decisione di perdono. Finché permangono residui di onnipotenza infantile non è possibile accettare il limite umano del partner che è lo specchio impietoso del limite umano dentro noi stessi. Ecco perché il perdono è ancora una volta una decisione interiore realizzata con il cuore: la presunzione di avere ragione, la supponenza di chi sa di essere nel giusto, la pretesa di avere soddisfazione (o vendetta) finiscono inevitabilmente con cristallizzare il dolore e inasprire le lacerazioni.
Perdonare il partner ha invece una straordinaria importanza non solo per il mantenimento e il miglioramento della relazione, ma ha anche un effetto di formidabile potenza sull’evoluzione interiore dell’individuo. Riuscire a vedere l’errore del partner con gli occhi del cuore, significa riconoscere anche in se stessi la fragilità della propria esistenza, significa accedere alla gratitudine per l’immenso dono della vita, significa scorgere la grande opportunità di crescita e di evoluzione che il partner – anche con i suoi limiti – ci offre quotidianamente.
Perdonare l’Altro inoltre ci apre la strada ad un evento ancora più importante ma strettamente collegato: il perdonare noi stessi.
Perdonarsi infatti è perlopiù considerato superfluo, inutile, talvolta privo di senso: ‘di cosa dovrei perdonarmi?’ Eppure nel profondo di ogni individuo risiedono silenti e apparentemente immobili, profondi sensi di colpa: sia per colpe reali, per errori, per superficialità, ma anche per colpe inesistenti, immaginarie, per colpe irreali ma vissute e percepite come se fossero perfettamente reali. Insieme al perdono per il partner è molto utile quindi affermare il proprio perdono per motivi che vanno dalla ricerca della perfezione assoluta (e quindi umanamente irraggiungibile), a tutte le pretese rabbiose, al desiderio di potenza e di onnipotenza, ai tanti pensieri negativi e collerici, all’allontanarsi dal proprio cammino evolutivo.
Il perdono nella coppia è quindi una meravigliosa occasione per fare un importante salto di qualità, per passare ad un più elevato livello esistenziale sia personale che all’interno della relazione.
“Aderisco con convinzione e promuovo con gioia la proposta di Silvia Ancordi
che si occupa di Educazione e Pedagogia, sicura che moltissimi di Voi che ora state leggendo vorrete seguirci su questa strada, siamo già in tanti, continuiamo così….”
Rivedendo il film in tv: “Un sogno per domani” ho pensato di riproporre questa catena di solidarietà. Educare all’altruismo e all’aiuto: si possono insegnare, come un gioco, ma con la responsabilità delle proprie scelte.
Una catena che non chiede soldi, non chiede di rimandare mail a chissà quante persone, di acquistare prodotti o tira in ballo santi vari. E’ tratto da un film: Trevor, ragazzino di seconda media, pensa a come si potrebbe cambiare il mondo e inventa il Passa il favore.
Se sei un insegnante di scuola, un educatore, un genitore, proponi questo compito ai tuoi alunni o figli. Poi se vuoi potrai scrivermi e dire agli altri quali siano i favori che hai fatto tu o le persone coinvolte: anche solo per dare qualche suggerimento!
Passa il favore
Il “gioco” è semplice, queste le regole originarie:
Fai 3 buone azioni ad altrettante persone secondo le regole:
1. L’azione deve essere qualcosa che aiuti veramente la persona.
2. L’azione deve essere qualcosa che la persona non possa fare da sola.
3. La persona deve impegnarsi a farlo a sua volta ad altre 3 persone.
Che ne dite di cominciare a fare anche solo favori che siano un po più impegnativi di quelli che facciamo di solito!? Certo voler cambiare la vita delle persone, può risultare difficile, già è complicato cambiare le nostre! E non è detto che l’altro accetti il nostro aiuto! Tutto questo ha un effetto amplificatore del gioco stesso. Da una persona, il favore si diffonde sempre di più, creando una vera e propria rete di amore e solidarietà. In questi giorni, parliamo di Amore, Amicizia, Fede, Rispetto, e soprattutto Pace.
Vogliamo far germogliare queste parole, o preferiamo lasciarle come semi su un terreno arido e non fertile?
Direi che si può fare che dite? Allora iniziate a pensare a chi potete aiutare che voglia e abbia bisogno del Vostro aiuto. Poi se siete soddisfatti, se volete raccontare agli altri ciò che avete fatto, potete raccontarlo su queste pagine. Non vorrete lasciare la sezione vuota?! : Vi aspetto numerosi!
“Non sono stato mandato in occidente da Cristo e dai grandi maestri dell’India per dogmatizzarvi con una nuova teologia, [ma] per insegnarvi la scienza del Kriya Yoga, affinché possiate imparare come comunicare direttamente con Dio. È giunto il tempo di conoscere Dio!”
I Maestri autorealizzati hanno la peculiare capacità di aiutare coloro che cercano la pace interiore e una più elevata consapevolezza. Allo stesso modo, Yogananda fu aiutato dai suoi predecessori spirituali, una storia affascinante che egli stesso racconta nella sua Autobiografia di uno Yogi. Su loro richiesta venne poi in Occidente ad aiutare centinaia di migliaia di persone nella loro ricerca spirituale. Ha impartito questi insegnamenti imparzialmente a persone di ogni religione e convinzioni filosofiche e persino ad atei.
Ciò che Yogananda ha insegnato in Occidente non è una religione, ma una spiritualità pratica. Le sue tecniche sono utili in ogni campo dell’attività umana. Esse si basano sulla ricerca della Autoconsapevolezza e della scoperta del Sé, usati dai ricercatori spirituali per millenni. Queste pratiche includono tecniche per aumentare il flusso di energia vitale nel corpo, per armonizzare corpo e mente con anima e spirito, e per entrare negli stati più alti della consapevolezza spirituale, che chiamò Supercoscienza.
Yogananda giunse a Boston nel 1920, quale rappresentante per l’India al Congresso dei Liberali Religiosi, dove tenne un discorso intitolato “La scienza della religione”. Creò il primo centro a Boston ed iniziò a tenere pubbliche conferenze e lezioni sulla realizzazione del Sé in tutti gli Stati Uniti. Le sue lezioni ebbero una straordinaria accoglienza di pubblico e spesso vi parteciparono migliaia di ascoltatori nelle più grandi sale di conferenza del Paese.
Nel 1925 stabilì il suo centro principale a Los Angeles pur continuando a dare conferenze in molte altre città. Scrisse molti libri, tra cui spiccano la famosa “Autobiografia” ed i commenti sugli insegnamenti originali di Gesù Cristo (La seconda venuta di Cristo) e di Krishna (La Bhagavad Gita). All’epoca della sua morte nel 1952 aveva centinaia di migliaia di studenti ed aveva fondato templi, centri e gruppi di meditazione in tutto il Paese.
Amicizia, amore, matrimonio e figli possono portare grandi gioie nella nostra vita oppure grandi sofferenze; ciò dipende da cosa ci aspettiamo dalle nostre relazioni.
Imparando a sviluppare l’amore più puro di tutti – l’amore non egoistico – riusciremo finalmente a esprimere il nostro vero amore verso gli altri, dal profondo del nostro cuore, senza paura di essere respinti.
Questo libro è una guida pratica per: espandere i confini del nostro amore; superare le cattive abitudini che compromettono la vera amicizia; scegliere il partner giusto e creare un rapporto duraturo; fare l’esperienza dell’Amore Universale dietro tutte le nostre relazioni.
In questo libro Paramhansa Yogananda, uno dei più importanti insegnanti spirituali del ventesimo secolo, ci offre una mappa da seguire passo dopo passo per trovare il tesoro della vera felicità nel luogo in cui più raramente lo cerchiamo: nel nostro stesso sé.
Paramhansa Yogananda giunse negli Stati Uniti dall’India nel 1920, portando in Occidente gli insegnamenti e le tecniche dello yoga, l’antica scienza del risveglio dell’anima. Egli applicò questi antichi principi a tutti gli ambiti dell’esistenza, insegnando ai suoi studenti come affrontare la vita da un centro di pace e felicità interiore.
Quegli stessi insegnamenti ora li condivide con te in queste pagine. Sono segreti semplici ma profondi, per portare la felicità in ogni momento della tua vita: nei rapporti, nel lavoro, in ogni aspetto delle tue giornate. Con il loro aiuto, potrai imparare a:
cercare la felicità là dove realmente si trova
scegliere di essere felice in ogni circostanza
identificare le abitudini che ti derubano della gioia
raggiungere il vero successo e la prosperità
scoprire gli aspetti spirituali della ricerca della felicità.
Questo è un libro che parla di Dio: del posto di Dio nella vita dell’uomo, nelle sue speranze, nella sua volontà, nelle sue aspirazioni, nei suoi raggiungimenti. Paramahansaji spiega perché e come l’uomo fu creato da Dio, com’egli è immutabile, parte di Dio e ciò che questo significa, personalmente, per ogni individuo. La realizzazione dell’unità dell’uomo col suo Creatore è l’intera essenza dello Yoga. La comprensione dell’ineluttabile necessità che l’uomo ha di Dio in ogni aspetto della vita, toglie alla religione il suo carattere soprannaturale e fa della conoscenza di Dio la base per un accostamento alla vita scientifico e pratico.
Ad alcuni lettori, questo libro offrirà una sfida nuova e irresistibile alla vita; ad altri porterà un rinnovato stimolo e un’ispirazione per i loro particolari perseguimenti. Molti chiuderanno queste pagine con la sensazione, che appaga l’anima, di avere partecipato a una festa spirituale di divino amore e divina saggezza. Quali che siano gli effetti prodotti individualmente, una cosa è certa: nessuno può toccare la verità e venirsene via senza esserne trasformato.