Secret Day Milano

Secret Day Milano

Secret Day Milano

Dopo il successo di Rimini (maggio 2008), 600 persone hanno partecipato al “Secret Day”, si ripete l’imperdibile evento formativo sull’applicazione pratica e quotidiana degli insegnamenti trasmessi nel bestseller di Rhonda Byrne con alcuni tra i migliori esperti motivazionali al mondo.

Quando: 1 Novembre 2008
Dove: Milano – Hotel Michelangelo Via Scarlatti, 33
Relatori: Gianni Golfera, Maria Rita Parsi, Marco Columbro, Owen Fitzpatrick, Alessio Roberti, Claudio Belotti

Due date:

Milano 1 novembre 2008

Roma 6 dicembre 2008

Programma…continua alla pagina Appuntamenti

The Secret

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Gli Scherzi della Mente: La vita è così…

Gli Scherzi della Mente:

La vita è così…

del venerabile Ajahn Sumedho

Ass. Santacittarama, 2008.

Traduzione di Federico Petrangeli


Testo adattato di un discorso pronunciato il 18 aprile 1999 presso lo Spirit Rock Meditation Centre (USA).

Prima di diventare monaco facevo l’insegnante di inglese a Bangkok. Era il 1966 e in Thailandia c’erano molte basi militari dell’aviazione americana. Uno degli insegnanti della scuola di lingue era un aviatore americano. Una volta, quando tornò dopo un’assenza di circa una settimana, gli chiesi dove fosse stato. Mi rispose: “Sono stato in un posto del nord-est della Thailandia dove la gente è così povera che mangia gli insetti”. Pensai: “Io non ci andrò mai”. Mi vedevo piuttosto come un monaco seduto in samadhi sulla spiaggia, sotto una palma, oppure in una caverna tra montagne incantevoli, impegnato nella realizzazione della verità. Ovviamente sono finito a fare il monaco nel nordest della Thailandia per dieci anni, ed è vero, laggiù mangiano insetti.

Il primo anno in monastero lo passai da solo, in una piccolo capanna. Non scambiavo praticamente parola con nessuno, meditavo soltanto. Riuscivo a seguire piuttosto bene i miei programmi. Essendo americano, alto e corpulento, mi bastava gonfiare il petto e assumere un’espressione fiera per ottenere tutto quello che volevo. Durante quell’anno arrivai a rendermi conto che ero diventato molto arrogante, con quel tipo di carattere che ha bisogno di avere dei limiti. Ero sempre stato una persona molto indipendente; ora avevo bisogno di imparare a obbedire e a far parte di una comunità. Avevo bisogno di un insegnante che non si rassegnasse al mio carattere.

Per caso un monaco del monastero di Ajahn Chah, l’unico che sapeva l’inglese, visitò il monastero dove vivevo. E finì che mi portò con sé, a conoscere Ajahn Chah. L’idea di vivere nella tradizione tailandese della Foresta mi ispirava molto, così decisi di rimanere. All’inizio ero affascinato dalla vita nel monastero e mi sentivo molto ispirato, ma ben presto iniziarono le difficoltà. La luna di miele finì, e la vecchia mente giudicante riprese il sopravvento. Prese a fare molto caldo, iniziò la stagione del monsone, e tutto diventò fradicio e maleodorante. Così cominciai ad odiare quel posto. Ricordo che sedevo pensando: “Perché sono qui?”.

Ajahn Chah amava testare la resistenza della nostra pazienza fino al punto in cui non pensavamo che ce l’avremmo fatta a resistere un altro minuto. Per me era diventato una specie di koan. Sentivo la mia voce ripetere: “Non ce la faccio più… Ne ho abbastanza. Questa è la FINE!”.

Poi ho scoperto che potevo resistere ancora. Cominciai a non fidarmi più di questo lamento isterico interiore, che dentro di me diceva continuamente: “Sono stufo, non ce la faccio più“. Da questo punto di vista lo stato monastico e le condizioni di vita che impone mi furono di grande aiuto.

Ma c’erano anche un sacco di abitudini che resistevano alla vita monastica. Essendo americano, cresciuto con un ideale di vita di libertà e di uguaglianza, mi sentivo incredibilmente frustrato, soffocato da quel sistema. Vivevo in una struttura gerarchica fondata sull’anzianità. Ed essendo il monaco più giovane, dovevo svolgere una serie di compiti per i monaci più anziani. Imparare ad accettare questi doveri e a prendere interesse al loro svolgimento fu per me una grossa sfida. C’era la parte egoista di me che avrebbe voluto vivere la vita monastica nei suoi propri termini. Avrei voluto decidere di svolgere determinati compiti solo se lo avessi ritenuto utile per me; ma nella maggior parte dei casi non era così. Sentivo dentro di me una specie di resistenza e un sentimento di ribellione.

Nello stesso tempo, c’era una continuo incoraggiamento a prendere reale coscienza di quello che stavo provando: la resistenza, la ribellione, l’atteggiamento di critica. Erano emozioni che emergevano e che potevano essere osservate durante la meditazione. Divenni consapevole della mia ostinazione, di un’immaturità che mi faceva brontolare e lamentarmi se le cose non andavano come volevo. L’enfasi era sul coltivare la consapevolezza di quello che stavo provando, così fu un periodo piuttosto interessante. Non ero certo spinto al conformismo, come se fosse un campo militare. Nessuno mi costringeva a stare in quel luogo, ero stato io a scegliere di vivere lì. Il mio impegno era di adeguarmi alla disciplina, di arrendermi alla vita monastica.

Adattarmi ad una vita monastica così rigida e tradizionalista includeva imparare a mangiare cibo che non amavo particolarmente. La gente del villaggio poteva portare piatti piccanti di curry con pollo, con pesce o con rane. E magari Ajahn Chah rovesciava tutto in un catino e mischiava. Era terribile. Oppure poteva capitare che per il nostro pasto le monache raccogliessero qualcosa nel bosco, ad esempio delle foglie. Ricordo che scrivevo a mia madre: “Vado avanti mangiando foglie”. E lei mi rispondeva con lettere molto preoccupate.

All’inizio non riuscivo a mangiare. Solo vedere il cibo mi faceva star male. Per fortuna eravamo nella stagione dei manghi, e c’erano grandi vassoi di manghi. Così riuscii ad andare avanti un mese intero nutrendomi di manghi e riso glutinoso. Ma poi la stagione dei manghi finì e io ripresi a dimagrire a vista d’occhio. Alla fine cominciai ad imparare come mangiare. E’ incredibile come possiamo adattarci bene. Incominciai a pensare che se ero in grado di mangiare quel cibo, sarei stato capace di vivere dovunque. In nessun posto il cibo sarebbe potuto essere peggiore di quello.

Qualche volta capitava che noi monaci andassimo tutti in città, nel retro di un grande carro. Poi si camminava per un giro di questua con Ajahn Chah. Era davvero una bella esperienza. Stavano tutti al bordo della strada principale, la gente aveva ogni tipo di cibo e lo versava nelle nostre ciotole. Quando le ciotole erano piene, qualcuno veniva con un grande cesto, noi versavamo il cibo nel cesto e andavamo avanti. Quando tornavamo al monastero, potevamo scegliere cosa mangiare tra quello che era rimasto nelle nostre ciotole. Era un’occasione così rara che ci faceva davvero perdere la testa. Una volta una donna mise nella mia ciotola una piccola torta. Quando arrivò il momento di versare il contenuto della ciotola nel cestino più grande, cercai di trattenere la torta nella ciotola. Non volevo che l’uomo che portava il cestino si accorgesse di quello che stavo cercare di fare, e la mia mente fu invasa da ogni genere di pensiero contorto. Era incredibile vedere con quanto sforzo e con quanta ansia cercassi di trattenere la torta. Ne ero totalmente ossessionato.

Mi scoprì anche ossessionato dai dolci. Vivendo nel celibato, ogni forma di attività sessuale è vietata. Questo limita il piacere che si può provare. Possiamo solo mangiare un pasto al giorno, spesso senza niente di particolarmente buono. Però ci sono permessi, se sono offerti, lo zucchero e il miele, come tonici. Una volta Ajahn Chah mi diede un sacchetto di zucchero. Ero così felice. Pensai: “Lo assaggio solamente”. Così aprii il sacchetto, ci infilai un cucchiaino, lo riempii e lo misi in bocca. Dopo un quarto d’ora avevo finito il sacchetto. Non riuscivo a fermarmi. A volte sognavo i dolci: andavo in pasticceria, mi sedevo e ordinavo delle torte dall’aspetto squisito. Appena ero sul punto di mangiarne una mi svegliavo.

La mente fa un sacco di scherzi. Quando si vive in una condizione in cui non si possono soddisfare tutti i propri desideri e non si può fare semplicemente ciò che si vuole, possono sorgere strane sensazioni e incredibili forme di desiderio su cose che prima non erano mai state un problema. Quando ero laico i miei desideri erano estesi su un gran numero di cose; nella vita monastica si erano tutti concentrati sullo zucchero e sui dolci. Eccomi là, un monaco che aveva ricevuto la piena ordinazione, che cercava di condurre una vita spirituale, e che si comportava come un fantasma affamato, sognando zucchero e dolci. Un altro monaco americano che aveva perfino la madre che gli spediva pacchi pieni di caramelle e di dolci al cioccolato.

Essendo il desiderio così concentrato, potevo però contemplarlo facilmente. Imparare a riflettere su questi desideri, su queste ossessioni della mente, è molto importante. E’ in queste circostanze che spesso abbiamo bisogno dei precetti per evitare di seguire le nostre abitudini o quella che è solo la via più semplice, quale che sia. I precetti ci aiutano ad osservare le sensazioni che sorgono, le nostre reazioni, e i risultati del nostro comportamento. Le restrizioni e il controllo che sono imposti dai precetti ci danno il senso del limite. Con consapevolezza riflessiva, impariamo a notare quanto forti possono essere gli impulsi e le ossessioni della mente. Possiamo vederli come oggetti mentali, piuttosto che come bisogni da soddisfare. Anche se a volte la mente urla: “Non ce la faccio più!”, la verità di tutta la faccenda è che possiamo tranquillamente farcela. Gli esseri umani hanno straordinarie capacità di resistenza. Se impariamo a esercitare un controllo su noi stessi, a non essere semplicemente trascinati dall’impeto dell’impulsività, allora iniziamo a trovare forza nella pratica. Non dobbiamo necessariamente essere schiavi delle abitudini e degli istinti.

Le molte regole della vita monastica sono basate su questo controllo. Una delle regole che all’inizio mi irritava veramente era quella che riguardava le vesti. Quando diventiamo monaci, ci viene dato un abito composto da tre vesti. Nella tradizione delle Foresta c’è l’usanza di indossare tutte e tre le vesti quando si esce per il giro mattutino della questua. Di mattino faceva molto caldo, e noi dovevamo sempre camminare parecchio, attraverso risaie e villaggi. Così, al ritorno, le vesti erano zuppe di sudore. Le vesti erano colorate con una tinta naturale di albero del pane e così, dopo un po’, la miscela di sudore e tinta di albero del pane cominciava a odorare terribilmente. Sembrava una vita incentrata sulle vesti: usare le vesti, lavare le vesti, cucire le vesti. Ma io non volevo avere una vita incentrata sulle vesti: io volevo meditare.

Trovavo tutto questo incredibilmente frustrante. Ricordo che una volta dissi a un altro monaco: “Questa di mettersi tutte le vesti è un’usanza stupida. Tutto quello che ci serve è una veste leggera, che ci copra adeguatamente. E’ molto difficile fare le nostre vesti pesanti, ci vuole tanta stoffa e usandola tutti i giorni nel caldo si deteriorano facilmente. Così dobbiamo farne altre, e questo significa più stoffa, più tinta, più cucito”. Ne feci un buon motivo per non mettermi tutte e tre le vesti, essendo la persona ragionevole che sono. Ma in realtà stavo solo piagnucolando e lamentandomi.

Il monaco raccontò tutto ad Ajahn Chah, che mi fece chiamare. Ero così imbarazzato. Improvvisamente mi apparve chiaro: perché fare un problema di tutto questo? Indossa semplicemente quelle vesti! Non vale la pena di fare queste scene. Lo posso sopportare. Non manderà in rovina la mia vita. Quello che mi sta rovinando la vita è la mia mente lagnosa, che dice: “Non voglio fare questo, questo è stupido, non ne vedo il motivo!”. Questa continua recriminazione mi stava consumando dal di dentro: affliggersi, criticare, avere opinioni rigide, stufarsi, voler andar via, rifiutarsi di collaborare, lamentarsi della vita. Questa è la sofferenza che non potevo sopportare. Mi resi conto che anche per la maggior parte della mia vita prima di diventare monaco, anche nel pieno di una vita confortevole, avevo l’abitudine di lamentarmi e di vedere le cose incessantemente con occhi critici.

Queste sono le cose che possiamo contemplare. Non possiamo controllare cosa sorge nella nostra mente, ma possiamo contemplare le nostre reazioni e imparare da questo, piuttosto che essere trascinati, impotenti, dalle reazioni istintive e dalle cattive abitudini. Anche se ci sono molte cose della nostra vita che non possiamo cambiare, possiamo cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della vita. In fin dei conti la meditazione è soprattutto questo: cambiare il nostro atteggiamento, passare da un atteggiamento auto-centrato, del tipo di “liberati di questo oppure prendi più di quest’altro!”, a un atteggiamento di accoglienza benevola della vita in quanto tale. Per accogliere l’opportunità di mangiare cibo che non ci piace, di vestire con tre vesti in una giornata caldissima. Per accogliere il disagio, l’essere stufi, la voglia di fuggire via. Questo modo di accogliere la vita esprime una comprensione profonda. La vita è così. Qualche volta è bella, qualche volta è orribile, e la maggior parte del tempo non è né l’una né l’altra cosa. La vita è così.

Letture consigliate

Concezione psicosomatica della malattia: OMEOSTASI E FORZE RISANATRICI NATURALI

omeostasiL’Omeostasi e le Forze Risanatrici Naturali


Nella concezione psicosomatica della malattia, l’ammalarsi e il guarire rappresentano gli eventi estremi di un processo interno di auto-organizzazione dell’organismo, detto “omeostasi”. Quando i meccanismi omeostatici, che permettono all’organismo di mantenersi in equilibrio, vengono alterati, si ha l’evento malattia, così come lo stato di salute è il frutto di un automatismo omeostatico, i cui fini meccanismi di regolazione biologica non sono percepibili dalla coscienza perché avvengono nell’inconscio corporeo.

L’uomo moderno pretenderebbe di risolvere rapidamente ogni malattia con medicinali specifici, evitando così di dedicarsi alla ricerca delle “cause” dei propri squilibri interni e demandando ai farmaci funzioni che l’organismo potrebbe svolgere in maniera autonoma o al massimo con l’ausilio di medicamenti blandi (ovviamente esulano da questo discorso condizioni gravi e pericolose come traumi o infezioni dovute ad agenti virali esterni aggressivi e mortali).

La malattia fa parte della vita e l’arte della guarigione fonda le sue basi nella capacità di essere consapevoli di quali eventi, piccoli o grandi, hanno alterato l’equilibrio della nostra unità psicosomatica: i farmaci possono agire sui sintomi nel breve termine, ma nel lungo periodo è necessario prendere consapevolezza dei ritmi, dei tempi, dei bisogni, delle pulsioni e dei possibili stati conflittuali del nostro corpo, della nostra mente, della nostra vita, di noi stessi.

da Enciclopedia Microsoft Encarta:

lemma: “Ippocrate di Cos (enciclopedia vers. CD)

Articoli collegati:



Riccardo ForlaniLa Medicina delle Cause

Manuale di terapie naturali applicate alla psiconeuroendocrino-immunologia. Per capire la medicina biologica e preventiva

Akros Edizioni

Al di là dell’aspetto prettamente farmacologico, La Medicina delle Cause trasmette un’etica rinnovata del rapporto medico-paziente, invitando ad adottare un punto di vista più globale nell’approccio all’individuo malato; inoltre sollecita il recupero di un ruolo attivo da parte dei pazienti, nella conservazione del proprio stato di salute.La Medicina delle Cause è rivolto a chiunque voglia riappropriarsi della gestione del proprio benessere psico-fisico, comprendendo a fondo i vantaggi di una filosofia della medicina che mira all’individuazione delle cause che hanno provocato la perdita dello stato di salute, ma anche a medici e professionisti della salute che vogliano allargare l’orizzonte delle proprie conoscenze, apprendendo nuovi strumenti terapeutici e nuovi spunti di approfondimento professionale.

La prima parte si concentra sul concetto di omeostasi biologica e pone in evidenza come la malattia sia una perturbazione del perfetto equilibrio biochimico ed energetico che intercorre tra i diversi apparati del nostro organismo.

La seconda parte analizza varie modalità di intervento terapeutico, alternative a quelle della medicina ufficiale, tra cui l’omeopatia, l’omotossicologia la fitoterapia e l’oligometalloterapia, che possono costituire utili strumenti di cura in tutte le fasi prelesionali.

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Rudolf KutzliIl Creativo Disegno di Forme
Natura e Cultura

Il fondamentale lavoro di Rudolf Kutzli sul disegno di forme rappresenta una raccolta di esercizi esposti secondo gradualità in cui viene mostrato un percorso che può essere seguito da tutti coloro che cercano uno stimolo alla propria attività interiore, indipendentemente da qualsiasi attitudine o conoscenza preliminare.

Questa sequenza di esercizi conduce ad un processo di attivazione che porta allo schiudersi delle forze creative sopite in ogni essere umano. Il disegno di forme fortifica il centro del nostro essere, l'”Io”, di fronte alle tendenze che lo minacciano costantemente spingendolo verso un pensiero sclerotizzato, verso crampi e desertificazioni dell’anima, verso l’apatia o l’assenza di guida nella sfera della volontà.

In un’epoca in cui tutto concorre alla paralisi della forza che apporta motivazione, al disseccamento dell’anima, in un’epoca i cui anti-ritmi minacciano di farci ammalare, un allenamento come questo può essere una sorgente di forze risanatrici, vitalizzanti e animicamente attivanti.
Nel settembre del 1919 Rudolf Steiner fondò la prima scuola Waldorf (scuola “steineriana”), basata su una nuova pedagogia, ovvero su un metodo d’insegnamento ispirato alla ricerca di una nuova “conoscenza dell’uomo” (Antroposofia). Nel programma di tale scuola Steiner introdusse due nuove materie, entrambe incentrate sulla forma e il movimento: l’euritmia e il disegno di forme.

Il disegno di forme parla al compositore ritmico nella nostra interiorità che unisce in armonia il formare e lo sciogliere, l’impulso e la quiete, il cosmico e il terrestre, rafforzando la forza del centro.

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Spegni il Fuoco della Rabbia

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Thich Nhat Hanh

Spegni il Fuoco della Rabbia

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Prezzo € 11,00

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La rabbia, la frustrazione e la disperazione che proviamo sono strettamente connesse con il nostro corpo e con il cibo che ingeriamo. Corpo e mente non sono due entità separate, sono una cosa sola. La presenza mentale e un’efficace strategia alimentare possono permetterci di abbracciare la rabbia e di neutralizzarla.


COMUNICAZIONE

COMUNICAZIONE

Parola oggi molto usata e talora “abusata”, la comunicazione indica in senso generale quell’insieme di segni e di messaggi – verbali e non – che servono per trasferire ad atri delle informazioni ma anche delle emozioni.

Secondo la definizione del linguista russo Roman Jakobson, per comunicazione si intende il processo linguistico di scambio da un emittente a un ricevente attraverso un canale e mediante un codice comune a entrambi.

La comunicazione può essere di due tipi, verbale e non verbal.e La prima utilizza parole, immagini, segni e testi scritti (su carta ma ora anche su strumenti elettronici).

La seconda impiega tutta una serie di comportamenti corporei come le posture, la distanza tenuta con l’interlocutore,le smorfie, i movimenti eseguiti con il capo o con le mani mentre parliamo, e così via.

“Tu diventi ciò che dici”

Parafrasando il detto per cui “l’uomo è ciò che mangia, si potrebbe dire che ognuno di noi “diventa le parole che dice”. In effetti, comunicare è semplice come respirare. Tuttavia “comunicare” non significa semplicemente “informare“: vuol dire “entrare in relazione” (e dunque scambiare informazioni, messaggi, sensazioni…) con soggetti esterni a noi. Per ogni essere vivente non comu­nicare è praticamente impossibile perché anche il silenz­io, lo sguardo, gli atteggiamenti non verbali o le smorfie del volto sono aspetti che “parlano” per noi e manifestano il nostro modo di essere, l’universo dei nostri stati d’animo.

Una buona comunicazione inizia dalla pancia

E’ stato dimostrato che il feto è in grado di percepire attraverso il ventre la voce della madre che gli parla durante i nove mesi di gravidanza, come pure i suoni e le musiche provenienti dal mondo esterno.

In tal modo tra mamma e bambino si instaura subito una forma di comunicazione che non fa sentire “isolato” il nascituro e, contemporaneamente, crea un legame tra la gestante e il bimbo, aiutando la donna a superare le ansie e i dubbi tipici dell’attesa.

Le regole per una comunicazione felice

Una buona comunicazione è il segreto per far fluire l’energia ma anche per stimolare correttamente il nostro cervello, che si nutre di parole e le fa germogliare: a patto, che si tratti di parole spontanee, perché le parole forzate, il linguaggio omologato e i modi di dire intasano la mente e creano “ingorghi” che nel tempo possono dare origine a disturbi psicosomatici.

Per esempio: spesso in coppia una battuta “infelice” o un battibecco dettato dal nervosismo aprono la strada a incomprensione, musi e rancori; tra genitori e figli, i giovani reagiscono alle imposizioni degli adulti con il silenzio o con parole sgarbate; al lavoro, si può eccedere con i toni melliflui per ottenere l’approvazione di capi e colleghi o, all’opposto, lasciarsi andare a espressioni Iamentose o rabbiose; e anche con gli amici a volte si adotta una comunicazione faziosa e standardizzata, sicuramente non originale ma “modulata” sullo stile del gruppo cui si appartiene pur di conservare il diritto di far parte di quella compagnia. Sta di fatto che ogni volta che non riusamo ad esprimerci o comunichiamo in modo forzato o sbagliato, creiamo un blocco energetico: il “detto male e troppo” come pure il “non detto” si trasformano in tossine energetiche che provocano disagi e infelicità.

Le parole sbagliate intossicano il cervello

Non esistono parole ascoltate o pronunciate che non lascino traccia. Tutte le parole, e in particolare le parole sbagliate, producono delle ricadute: seminano scorie e condizionamenti, generano atteggiamenti distorti e “storpiature” che ci complicano l’esistenza e ci intossicano la mente.i Una volta pronunciate, infatti, esse vanno ad agire contemporaneamente su due cervelli (come minimo): quel di chi parla e quello di chi ascolta.

E in entrambi i cervelli, diventano materia mediante un preciso percorso chimico-fisico (oltre che simbolico) che attraversa corpo e psiche a partire dall’orecchio. Proviamo a seguirlo.

Dalla voce all’orecchio… L’ingresso dei suoni nel corpo avviene attraverso il timpano, una specie di “porta” situata dentro l’orecchio.

Da qui procedono nel cranio verso una struttura denominata coclea, fanno vibrare l’orecchio interno e poi si incanalano nel nervo acustico.

si propagano sotto pelle… A questo punto le parole stimolano il nervo vago, che si dirama verso gli organi della respirazione, della digestione e della circolazione.

A livello centrale invece vengono interessate alcune aree del cervello e le zone vicine alle strutture uditive, come le aree limbiche e para-limbiche, dove le emozioni si trasfor­mano in impulsi fisico-chimici e viceversa.

sino ad arrivare a tutto l’organismo. Quando una paro­la entra dentro di noi (può essere una parola da noi pronun­ciata o anche solo pensata in silenzio, oppure la parola che ci viene detta) modifica contemporaneamente le aree cere­brali e lo stato di alcuni visceri: in sostanza, crea un differen­te stato di coscienza sia a livello psichico che somatico.

Di conseguenza, può far star bene o può creare disagio.

La parola è come un seme che feconda il cervello

In tutte le tradizioni, orientali e occidentali, si riconosce alla parola un potere fecondante rispetto al cervello, simi­le a quello di un seme che – messo nella terra – inizia a cre­scere e dà origine alla pianta. Il filosofo russo George Iva­novitch Gurdjieff sostiene che: «Noi diventiamo le parole che ascoltiamo», mentre una delle massime del saggio in­diano Sri Nisargadatta Maharaj recita: «Dissolvi le paro­le». Soltanto così la materia creata dal linguaggio (e quin­di anche il disagio o la malattia indotti dalle parole) per­derà forma e consistenza, fino a svanire nel nulla.

Ecco perché già gli antichi sacerdoti egizi vietavano di nominare le malattie, in quanto il fatto solo di enunciar­ne il nome equivale a “seminarle” nella realtà.

Il nostro cervello, infatti, è come un terreno fecondo su cui le parole, le nostre come quelle altrui, cadono come tanti semi: ascoltando se stessi e gli altri si diventa come il fertile ricettacolo di questi semi, che poi fruttificano e germogliano nel corpo.

11 linguaggio è una vera e propria energia tipica dell’uomo: le parole sono “frecce” che nascono all’interno di noi stessi, fluiscono verso il mondo esterno, diventando linguaggio. Tutto ciò che diciamo, in definitiva, lascia un segno sulla nostra psiche, lavora nel nostro inconscio per giorni, mesi, anni, arrivando a cambiare non solo la mentalità, ma anche la materia di cui siamo fatti. Per questo possiamo tranquillamente affermare che noi diventiamo per davvero le parole che pronunciamo, quelle che abbiamo ascoltato e che continuiamo ad ascoltare.

La soluzione: essere consapevoli della nostra comunicazione. Affinché le parole diano sollievo e creino benessere, occorre acquisire consapevolezza di cosa diciamo e di come parliamo. Perché, quando è “giusta”, la parola trasforma l’energia, ma ciò accade solo quando esprimiamo ciò che sentiamo veramente, quando parliamo in maniera personale e originale e, se serve, quando riusciamo a tacere.

Il valore terapeutico del silenzio

La cultura contemporanea ci riempie di parole e ci costringe a vivere in uno spazio intasato di suoni, di pensieri, di proiezioni mentali. Con il silenzio, invece, si eliminano tutte le parole inutili e sbagliate che si affollano nella mente. Se anche per qualche minuto, senza farsi prendere dall’assillo di riempire il vuoto di parole, ci rilassiamo e restiamo a mente vuota senza pensare né dire nulla, è probabile che si affaccino alla mente le parole più adatte a quella determinata situazione.

Secondo i più recenti studi neurologici, infatti, quando siamo in silenzio, nel nostro cervello avviene una sorta di organizzazione, di “reset” e, probabilmente, si può addirittura parlare di un affioramento di funzioni cerebrali diverse, molto antiche, messe sullo sfondo dal fluire continuo ed eccessivo delle “parole di superficie”.

E’ soltanto nel silenzio, infatti, che possiamo incontrare i “nostri” suoni e le “nostre” parole: quelli che davvero ci appartengono e che possono guarirci da tutti i mali. Il suono, infatti, nasce dallo spazio interiore: a sgombrare tale spazio è il silenzio, che ha la funzione di smaterializzare il pensiero e di creare il vuoto, luogo di incubazione delle parole autentiche e grembo di accoglimento dell’ascolto.

I Sì E’ i NO della comunicazione

Noi diventiamo le parole che pronunciamo, quelle che abbia­mo ascoltato e che continuiamo ad ascoltare. Ecco perché è importante diventare consapevoli della nostra comunicazione.

  • Usa poche parole / Innanzitutto, impara a pronunciare i suoni giusti e il giusto numero di parole, solo le paro­le che ti servono per esprimerti in modo adatto alle tue vere esigenze. Chiediti, per esempio se stai usando le parole appropriate per manifestare le tue emozioni, se ripeti sempre le stesse parole come inutili infarciture del discorso… Considera tutte queste variabili e verifica come potresti comunicare in maniera diversa e più naturale.
  • Usa un linguaggio personalizzato e “leggero” / Smetti di adattarti a modelli standard di perfezione e di successo, e non pronunciare più parole inutili, sterili o prese a pre stito da altri giusto per riempire lo spazio tra te e il tuo interlocutore: ritrova in te stesso i “tuoi” suoni e lasciali affiorare nel modo più spontaneo possibile. Non aggiungerci altro. Ogni parola, infatti, è come un vettore energetico, una freccia diretta al bersaglio: più l’appesantisci con premesse, precisazioni, sinonimi e più la rallenti, distogliendola dalla sua naturale traiettoria.
  • Privilegia la sintesi / il vero messaggio che si intende trasmettere è sempre molto breve: secondo gli esperti, si può condensare in non più di dieci parole. Tutte le altre, sono parole “di contorno”, buone soltanto a esprimere segnali contraddittori e ambigui. Se dunque devi dire qualcosa, cerca di esprimerlo con poche parole, chiare e comprensibili. Sarai più deciso e sicuro di te, e… terrai inchiodato al l’ascolto i tuoi interlocutori.

NO

  • Sostituirti al tuo interlocutore / Tra gli errori di comunicazione più diffusi c’è quello per cui chi parla tende a… mettersi nei panni di chi lo ascolta. Così facendo, esprimiamo solo la paura di essere giudicati dall’altro, oppure non siamo sicuri che quello che stiamo comunicando sia “giusto”. Cerchiamo invece di esprimere solo ciò che sentiamo e basta.
  • Cercare di convincere / Una comunicazione con intenti manipolatori è una comunicazione malsana. Più si cerca di blandire l’interlocutore e più questi si sentiingannato, se invece si tenta di smantellare le sue idee, si metterà sulle difensive. Meglio quindi comunicare in modo sincero e neutrale e lasciare all’altro la libertà di coltivare le sue idee, che magari sono già uguali alle nostre…
  • Copiare gli altri / La comunicazione è come un abito: per colpire dev’essere personalizzata. Bando dunque all’abuso di slang, modi di dire, proverbi, parole straniere…. Se parli copiando qualcuno, rischi solo di sembrare una caricatura, sortendo effetti ridicoli e senza ottenere nessun risultato.

(Tratto da il Dizionario della felicità – RIZA – Raffaele Morelli)